domenica 11 maggio 2014

Macchie di Rorschach: la poesia di Marco Ferrazzoli


Ho scoperto le poesie di Marco Ferrazzoli grazie a Facebook, a dimostrazione che i social network sono solo degli strumenti di comunicazione, dove si possono trovare la pura chiacchiera o le bufale, ma anche le cose interessanti, che così possono circolare e creare cultura. Ho scritto all'autore, giornalista e attualmente Capo ufficio stampa del CNR, il quale, nel giro di pochi giorni, mi ha inviato la sua raccolta dal suggestivo titolo Macchie di Rorschach, edita da Terre Sommerse nel 2010. Come faccio tutte le volte che mi accosto a una raccolta poetica, cerco e leggo innanzitutto la poesia che le dà il titolo, in modo da avere un’indicazione, una cifra, di quello che leggerò: 

Come macchie di Rorschach 
in cui ciascuno vede ciò che vuole 
come fosfeni che coprono gli occhi 
per aver fissato troppo a lungo il sole 

Così sono le poesie, non dico le mie 
o i romanzi, i saggi, i film e le canzoni 
a cui chiediamo di dirci chi siamo 
e poi, non si sa come, ci riconosciamo 

Senza essere capaci di dircelo da soli. 

Questa riflessione sulla poesia mi ha subito ricordato un pensiero di Marcel Proust (in Il tempo ritrovato, 1927), che talvolta utilizzo quando voglio farmi passare per intellettuale: 

“In realtà, ogni lettore, quando legge, è il lettore di se stesso. L'opera dello scrittore è solo una specie di strumento ottico offerto al lettore per consentirgli di discernere ciò che forse, senza quel libro, non avrebbe potuto intravedere in se stesso”. 

Sono poi passato a leggere con ordine la raccolta, che ho trovato scritta con parole semplici e profonde. Soprattutto è sincera, senza ammiccamenti al lettore, rivelando una grande capacità di indagine introspettiva: non occorre essere complicati per suscitare emozioni. Ho allora proposto a Marco una piccola intervista a distanza, che egli ha accettato di rilasciare. Il risultato è qui sotto, ed è curioso il fatto che mi sia trovato a intervistare un giornalista!
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In alcune tue poesie affermi che “la poesia è lavoro” (in Carmina et circenses), che il poeta è un artigiano sempre alla ricerca di perfezionare la sua opera (in N’est pas qu’un debut), e che tuttavia, Alla fine dei canti, la poesia non può alleviare il dolore: 

(…) 
“Così, alla fine dei canti sul foglio ritrovi soltanto 
quello che già sai 
e se una cosa riesci a comprendere è solo 
che mai, ma mai, 

con quattro parole anche giuste messe di fila 
il tuo male andrà via 
e all'ultima strofa ti chiedi a che serve, se serve 
questa cazzo di poesia”. 

Allora ti chiedo: perché scrivere versi? Da dove nasce l’impulso alla poesia? Si sceglie la poesia o si viene scelti da lei? 

Lo ammetto con profondo imbarazzo, ma in gran parte si viene scelti. La spinta a scrivere poesie nella mia vita è entrata piuttosto all’improvviso, in età matura, in un momento preciso e particolare: del tutto inattesa, considerato che la poeticità non fa parte della mia vita e nemmeno, a tutt’oggi, della mia scrittura. L’imbarazzo che denuncio deriva dal fatto che l’ispirazione è la molla con cui moltissimi ‘poetanti’ giustificano le loro esternazioni ombelicali: io soffro e l’umanità deve saperlo, “le trippe sul tavolo”, come le chiamava Ruggero Guarini! Per rifuggire da questo rischio, che mi fa orrore e quindi temo sempre di lambire, prima di pubblicare ho sottoposto i miei tentativi a diversi lettori, tra cui uno implacabile come Valentino Zeichen. Spero poi di tenermene a distanza con un uso continuo dell’ironia, dell’autoironia e del sarcasmo, che nelle cose che sto scrivendo ora si fa sempre più preponderante, guardando a modelli come Scialoja e Risi. E, per l’appunto, misurandomi per quanto riesco con le poesie altrui da lettore: un esercizio, questo, che quasi nessun autore fa, come l’asfittico mercato editoriale conferma. 


Tra i temi che tratti ci sono le domande fondamentali “sulla vita, l’universo e tutto quanto”. Parli di dolore, di amori che finiscono, di educazione dei figli, di ricordi di gioventù, di solitudine e incomunicabilità. Lo fai senza filosofeggiare, con un linguaggio e situazioni tratte dal quotidiano. Ad esempio mi è molto piaciuta Misericordia corporale, che riporto per intero: 

L’infermiera canterina 
passa in corridoi, indifferente 
ai muri scrostati, ai malati, 
allo squallore delle cose 
e al dolore della gente 

Al piano superiore si sente 
un vagito: è il reparto maternità. 
Nella rianimazione, solo un tintinnio 
cantilenante. L’infermiera non lo sa 
ma è la metafora dell’umanità. 

C’è in questi versi semplici una profondità che spesso non trovo in opere piene di sperimentalismi stilistici o lessicali. Il tuo linguaggio poetico risulta da una scelta stilistica? Quali sono i tuoi poeti preferiti? Che cosa pensi delle avanguardie? 

Non mi pronuncio, né sulla profondità né sugli altri tuoi apprezzamenti, limitandomi a ringraziarti e assicurare che il mio imbarazzo di intervistato è ben superiore al tuo. Questa e altre cose che ho scritto credo risentano dell’impostazione che un mio affettuoso stroncatore ha definito ‘giornalistica’: scarso uso della metafora, osservazione e descrizione della realtà e, spero, una certa capacità di analisi e sintesi, frutto purtroppo anche dell’anagrafe. Per rispondere sulle fonti, sono molto banalmente legato alla poesia da antologia e considero complessivamente insuperati i classici del XIX e XX secolo, senza tante distinzioni di scuola: Gozzano, Carducci, Caproni, Montale, Saba, Ungaretti… E poi Luzi e Spaziani, che ho avuto l’onore di conoscere, Dario Bellezza e Antonio Santori, di cui sono stato amico. Tra i contemporanei, mi hanno regalato belle letture Piersanti, Ruffilli, Bertoni, Mencarelli, Rosadini. Per compensare l’omissione delle avanguardie in questo best of, comunque non acrimoniosa, faccio notare quella, intenzionale, di molti autori amatissimi dal grande pubblico, ma qui taccio perché si aprirebbe un discorso davvero politicamente scorretto.


Nei tuoi versi affiora il fatto di essere credente, anche se la tua fede non è dottrinaria o esclusiva, ma sofferta e piena di domande. Così, Dio può essere una scommessa, alla maniera di Pascal, “una scommessa / che per secoli gli uomini hanno giocato al ribasso” (da Rien ne va plus), ma, alla fine, “nella forza di credere possiamo crederci sempre / perché non dipende soltanto da noi, fortunatamente” (da In hoc signo). Io, che non sono credente, dissento, ma rispetto ovviamente il tuo pensiero, e sono pienamente convinto che nella poesia un autore debba esprimere tutto il suo essere, senza infingimenti, compresa la presenza o l’assenza di una fede in qualcosa che va oltre l’umano. Uno dei poeti che più mi ha colpito negli ultimi decenni è stato proprio un prete, David Maria Turoldo, che ha avuto il coraggio di scrivere che Dio non viene all'appuntamento

Ma quando declina questo 
giorno senza tramonto? 
All'incontro cercato 
nessuno giunge. 
E le pietre bevono 
il sangue di questo cuore 
ancora per miracolo vivo. 

Secondo te, è possibile trovare nella poesia quel dialogo tra credenti e non credenti, o tra credenti di fede diversa, che è spesso difficile o, come casi recenti dimostrano, si riduce a un giustapporsi di monologhi (e di trombonismi)? 

Dovendo scegliere, più la seconda che hai detto. Come Pasolini, non credo o non capisco la mitologia della ‘tolleranza’, che comunque presuppone la marcatura delle reciproche differenze, e credo invece molto nel semplice rispetto, che però non implica tentativi di sintesi forzate o convincimenti. Tanto più su un tema nel quale la distanza è inevitabilmente siderale e quindi, proprio per questo, paradossalmente non problematica. Una precisazione personale: come diceva di recente Renzo Arbore, con il passare degli anni più che credente mi definirei ‘speranzoso’. 

Un’ultima domanda. Doverosa, visto che ora fai il comunicatore ufficiale del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Riguarda il rapporto tra scienza e poesia. Nella raccolta c’è Dark room, in cui paragoni la nostra ricerca del sapere alla situazione di trovarsi in una stanza buia e cercare a tastoni l’uscita, imparando di volta in volta dall'esperienza: 

L’unica intelligenza concessa all'uomo 
è la curiosa, smarrita ignoranza 
con cui al buio tastiamo, cercando 
la porta d’uscita, la parete di una stanza. 

C’è, in quel pizzico di panico, più vita 
che nella fredda soddisfatta 
con cui percorriamo la tratta illuminata: 
illudendoci di trovarci al sicuro. 

Quando in tutto il creato non c’è muro 
né strada dei quali non dubitare 
così come non c’è mistero né scuro 
da cui non possiamo uscire e imparare. 

Trovo anche Almagesto, in cui auspichi “un universo con il cuore al centro”, “un cosmo a misura d’uomo” e attacchi, a mio giudizio ingenerosamente, Margherita Hack, “l’astrofisica scientista”, dicendo che lei riderebbe di questi tuoi desideri, lei dotata di telescopio mentre gli uomini vedono poco, “come se ci fosse un velo”. Sono d’accordo sul pericolo dello scientismo (che in certe sue manifestazioni assume i connotati di una religione, ma non è il caso dell’astronoma che da poco ci ha lasciato), ma non ritieni che sia meravigliosa questa immensità che la scienza ci ha rivelato? Tornando alla domanda più generale: ritieni che la scienza sia, come pensava Coleridge, un “serbatoio di metafore” per la poesia, oppure pensi che possa esistere un legame di complementarietà tra i due ambiti, come io ritengo, e che si possa fare poesia anche sulla scienza e con la scienza? 

Mi sono professionalmente avvicinato alla ricerca scientifica fornendole tutta la mia curiosa ignoranza socratica e continuo a considerarla un oggetto di comunicazione e informazione estremamente interessante. Ma in modo del tutto ‘laico’: pavento il rischio che l’impostazione ‘religiosa’ - ti sto citando - di taluni ricercatori e divulgatori ampli la spaccatura tra l’élite colta consapevole e la stragrande maggioranza scientificamente, e non solo, quasi analfabeta. Ricerca, tecnologia e innovazione sono quindi protagoniste della mia poesia alla pari di qualunque altro soggetto, poiché le considero nel loro potenziale di ‘notizia’ e ritengo che le criticità della loro comunicazione siano risolvibili solo con tale approccio. Questo tema nel corso degli anni mi ha ‘preso’ molto e ne sto scrivendo proprio ora, con l’idea di pubblicare qualcosa.


Questo è quanto. E non è poco. Un ringraziamento sentito va a Marco, sia per le sue risposte, sia, soprattutto, per aver donato emozioni e spunti di riflessione con la sua opera. 

Marco Ferrazzoli 
Macchie di Rorschach 
Terre Sommerse, Roma, 2010

5 commenti:

  1. Spunti interessanti. Non aggiungo altro. Condivido su FB. RaffRag

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  2. Sempre meglio. Ma sapete qual'è la cosa più sconvolgente, paranormale addirittura? A quell'ora io e il Marco Fulvio Barozzi stavamo passeggiando per via Garibaldi a Torino. E lui non aveva aggeggi webici a portata di mano. Mystero.

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  3. "che nella fredda soddisfatta": è possibile che quel "fredda" sia un refuso?

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  4. Ho apprezzato il poeta e trovo convincenti le tue riflessioni. Condivido su fb e recupero, per il blog che alimento, un paio di poesie. Grazie!

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  5. Bella intervista e complimenti al Marco poeta! Imparo sempre qualcosa qui da te, Kees! Grazie!

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