sabato 4 gennaio 2014

Il cinico inganno di Domenico Nizzola


A torto considerato un tardo seguace delle idee e delle poetiche del Gruppo ’63, Domenico Nizzola, morto ieri sera a Parma dopo lunga malattia, ne fu il più accanito critico. Solo recentemente, in una lunga intervista a Maria Clara Bottoni comparsa su “Il Murri”, aveva confessato la sua indifferenza per le tematiche sociali, che aveva trattato per solo cinico gioco letterario, e soprattutto l’insofferenza per il “verso lungo” alla Pagliarani, che aveva trasfigurato il testo poetico fino a trasformarlo in un racconto frammentato e discontinuo. Così, nel dire che le sue opere vere, del tutto sottovalutate dalla critica ancora imbevuta di strutturalismo e di ideologia politica, erano comparse con lo pseudonimo di Giovanni Casella (si tratta delle raccolte di sonetti e ballate Chiesina di campagna, 1975, Inverno dai nonni, 1979, e Dietro il vecchio canterano, 1991, dalle atmosfere decisamente pascoliane e surrealiste), ha sostenuto che la cosiddetta neoavanguardia aveva ridotto la poesia italiana “a un gran circo di sperimentazioni, di acrobati del verso libero e della prosa zoppicante scambiata per poesia, di giocolieri della lotta di classe in salsa poetica”. 

Due anni fa, nel breve saggio Smontare il giocattolo (neoavanguardista) (Chiodini, Pisa, 2012), prendendosi gioco della critica, aveva rinnegato il poema Roberto resiste (1988), che gli aveva dato fama e premi letterari, rivelandone le banali modalità di costruzione, definite “un gioco dalle regole tanto semplici da essere sfuggite agli ingegneri meccanici della critica”. Così iniziava l’opera, con un doppio sonetto alquanto irregolare che aveva fatto innamorare migliaia di lettori sprovveduti e fatto gridare al miracolo più di un critico militante: 

Mi dice lo scrittore che il lavoro è faticoso, e concede, generoso, 
che lavorare seduti al caldo è un bel vantaggio, – che coraggio! – 
ma anche per loro ci sono le giornate nere, un cielo ombroso, 
e che è più affidabile un manufatto, cui rende omaggio, 
di un’opera che non sai, anche se hai scritto appassionatamente, 
se piacerà al lettore, tardiva misura di valore, e che la pagina 
accoglie tollerante ogni delirio e non protesta indifferente 
mentre è più leale l’armatura di miniera, che geme e, immagina, 
scricchiolando se caricata troppo, avverte del crollo rovinoso. 
Non c’è allarme – assicura – nella sua attività, e non si sente 
se il lavoro non è fatto con grazia, se non è armonioso. 
Tutto ciò causa angoscia, l’intellettuale soffre di sovente, 
e si dà al bere, al fumo e non dorme per il nervoso, 
al punto che per il dolore molti muoiono precocemente. 

Roberto ascolta muto, Roberto resiste, ma sale presto di pressione, 
aspetta che lo scrittore abbia finito il suo sfogo, forse sincero, 
per dire che quelli che parlano tanto non sanno la situazione, 
che il nervoso viene a chi lavora, che fa fatica per davvero. 
Provi il lamentoso, un giorno solo, magari per un capriccio, 
a stare tutto solo in cima a un traliccio, e tira forte il vento 
che pare una barchetta dentro la tempesta, e in quell’impiccio 
vede le persone a terra come formiche e vorrebbe per portento 
non aver due mani, ma dieci cento, per reggersi e serrar la vite 
e tenere il disegno e fissare il moschettone della cintura: 
non è certo situazione rilassante. E poi, se anche ci riuscite, 
rifarlo il giorno dopo, e per anni, con la stessa paura, 
sempre che prima non cedete e tra i poveracci finite 
che per incidente misurano quanto la terra è dura. 

Così Nizzola commentava nel primo capitolo del pamphlet: 

«Si trattava di costruire un testo poetico che si rivelasse “sociale e democratico”, come ancora andava di moda, e che allo stesso tempo fosse abbastanza elitario per compiacere la critica, che amava ed ama chi parla del popolo in maniera accessibile solo agli intellettuali. Se poi qualche parte fosse stata incomprensibile e avesse sollevato interpretazioni contrapposte, allora tanto meglio: avrei mantenuto più gente nelle riviste d’avanguardia. (…) 

Mi piaceva un brano de La chiave a stella di Primo Levi, quando il protagonista, alter ego dello scrittore, conversa con il tecnico montatore Faussone sulle differenze e le analogie tra le loro professioni: 

(…) Gli ho risposto che fare confronti è difficile; che tuttavia, avendo fatto anche mestieri simili al suo, gli dovevo dare atto che lavorare stando seduti, al caldo e a livello del pavimento, è un bel vantaggio, ma (…) le giornate balorde capitano anche a noi. Anzi: ci capitano più di sovente, perché è più facile accertarsi se è in “bolla d’aria” una carpenteria metallica che non una pagina scritta; così può capitare che uno scriva con entusiasmo una pagina, o anche un libro intero, e poi si accorga che non va bene e (…) mediti di cambiare mestiere, aria, e pelle; e magari di mettersi a fare il montatore. (…) la carta è un materiale troppo tollerante. Le puoi scrivere sopra qualunque enormità, e non protesta mai: non fa come il legname delle armature nelle gallerie di miniera, che scricchiola quando è sovraccarico e sta per venire il crollo. Nel mestiere di scrivere la strumentazione e i segnali d’allarme sono rudimentali (…) Ma se una pagina non va se ne accorge chi legge, quando ormai è troppo tardi, e allora si mette male (…) 

(…) i nervi degli scrittori tendono a essere deboli: ma è difficile decidere se i nervi si indeboliscono per causa dello scrivere, e della prima accennata mancanza di strumenti sensibili a cui delegare il giudizio sulla qualità della materia scritta, o se invece il mestiere di scrivere attragga preferenzialmente la gente predisposta alla nevrosi. È comunque attestato che diversi scrittori erano nevrastenici (…) e che altri sono addirittura finiti in manicomio (…); parecchi, poi, senza arrivare alla malattia conclamata, vivono male, sono tristi, bevono, fumano, non dormono più e muoiono presto”. 

Tali considerazioni portano Faussone a questa risposta: 

“Il fatto è che di lavorare si parla tanto, ma quelli che ne parlano più forte sono proprio quelli che non hanno mai provato. Secondo me, il fatto dei nervi che saltano, al giorno d’oggi, capita un po’ a tutti (…) A proposito di nervi: non creda mica che quando uno è lassù in cima, da solo, e tira vento, e il traliccio non è ancora controventato e è ballerino come una barchetta, e lei vede a terra le persone come le formiche, e con una mano sta attaccato e con l’altra mena la chiave a stella e le farebbe comodo di avere una mano numero tre per reggere il disegno e magari anche una mano numero quattro per spostare il moschettone della cintura di sicurezza; bene, le stavo dicendo, non creda mica che per i nervi sia una medicina. A dirle la verità, così sui due piedi non le saprei dire di un montatore che è finito in manicomio, ma so di tanti, anche miei amici, che sono venuti malati e hanno dovuto cambiare mestiere”. 

Lo scrittore, ammettendo che nel suo settore le malattie professionali sono poche, concede la vittoria dialettica al suo interlocutore, il quale, non volendo un successo di misura, conclude affermando che “Uno non può mica ammalarsi a forza di scrivere. Tutt’al più, se scrive con la biro, gli può venire un callo qui. E anche per gli infortuni, è meglio lasciar perdere”


Era senza dubbio il brano che serviva per iniziare la mia opera. Con qualche semplice parafrasi lo trasformai, e così divenne famoso, senza che nessuno si accorgesse della mediocre parodia che avevo deliberatamente congegnato, senza che qualche poeta laureato o professore si fosse preso la briga di notare le analogie evidenti con Primo Levi, che era morto suicidandosi l’anno prima e non poteva certo protestare. Il resto del poema, per i rimanenti 392 versi, fu costruito in modo analogo utilizzando brani di altri autori. Era come giocare a Lego usando mattoncini che si chiamano Pratolini, Cassola, Pessoa, Pavese, Zavattini, Guattari, Campanile, Deleuze, Vamba e molti altri. Mi divertii moltissimo». 

L’ultima opera poetica di Nizzola compare a chiusura del saggio di autodenuncia, a voler sancire in modo ironico il cinico e metodico inganno che aveva perpetrato ai danni di gran parte del mondo letterario italiano: 

‘63 + ‘77 = ‘48! 

Colto da ebete straniamento. 
da illusionistica epifania, 
con rizomatico travestimento, 
m’inabissai nella poesia. 
Con Bachtin sul comodino 
e mise en abyme cognitiva, 
gustai Celati con Arbasino, 
e Balestrini appena usciva. 
Fumata Malerba con gli Indiani, 
tergendo un po’ di Sanguineti, 
mi risvegliavo l’indomani 
territorializzando i miei secreti. 
Farsesco nonsenso della vita 
e sbeffeggiante batter d’ali, 
decisi un giorno di farla finita 
con siffatte seghe mentali.



1 commento:

  1. Ricordo bene quell'intervista a Nizzola, soprattutto perché mi offrì da bere del rosso che sapeva di tappo.

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