martedì 6 marzo 2012

L’universo invisibile, con anagramma insolubile

Sul numero 10 di Nature del 15 ottobre 1874, alle pagine 480-481, nella rubrica delle comunicazioni dei corrispondenti e subito dopo una lunga recensione di J. C. Maxwell su un libro di Van Der Waals, comparve uno strano messaggio, che riporto:

“An anagram: The practice of enclosing discoveries in sealed packets and sending them to Academies seems so inferior to the old one of Huyghens, that the following is sent you for publication in the old conservated form:

A8 C 3 D E12 F4 G H6 J6 L3 M3 N5 O6 P
R4 S5 T14 U6 V2 W X Y2                                               WEST"

“Un anagramma: L’uso di racchiudere le scoperte in buste sigillate e di inviarle alle Accademie appare così mediocre rispetto a quello vecchio di Huygens, che la seguente vi è inviata per la pubblicazione nell’antica forma tramandata.”

Il testo era assai criptico, e la soluzione fu resa nota solo l’anno successivo, quando fu pubblicato in forma anonima il libro The Unseen Universe (L’universo invisibile), al punto 199 (pagina 200 del testo originale):

“199. If we now turn to thought, we find, (Art. 59) that, inasmuch as it affects the substance of the present visible universe, it produces a material organ of memory. But the motions which accompany thought must originate in and also affect the invisible order of things, because in the first place the forces which cause those motions are derived from the unseen, and because, secondly, the motions themselves must act upon the unseen, and thus it follows, that 'Thought conceived to affect the matter of another universe simultaneously with this may explain a future state' (see Anagram, Nature, October 15, 1874)”.

“199. Se noi ora ci rivolgiamo al pensiero, troviamo (art. 59) che, nella misura in cui esso influisce sulla sostanza del presente universo visibile, esso produce un organo materiale della memoria. Ma i movimenti che accompagnano il pensiero devono originarsi nell’invisibile ordine delle cose e anche influenzarlo, perché in primo luogo le forse che causano questi movimenti sono derivate dall’invisibile, e perché, secondariamente, i moti stessi devono agire sull’invisibile, e di conseguenza ne deriva che “Il pensiero concepito per influenzare la materia di un altro universo, allo stesso tempo con ciò può spiegare uno stato futuro” (vedi Anagramma, Nature, 15 Ottobre 1874)”.

La spiegazione dell’anagramma (in realtà praticamente insolubile) risiede nel fatto che l’esponente di ogni lettera indica il numero di volte che essa compare nella frase risolutiva inglese, che infatti contiene otto A, nessuna B, tre C, ecc., con una notazione di tipo algebrico. Di sicuro anche la frase risultante risulta nebulosa, se non si considera il testo dal quale è stata tratta.

Peter Guthrie Tait
Il libro era senza dubbio l’opera di uno o più fisici e, siccome essi allora non erano poi molto numerosi, non fu difficile determinare la paternità dall’evidenza interna. Esso fu attribuito al fisico e matematico scozzese Peter Guthrie Tait (1831-1901), professore a Edimburgo e amico d’infanzia di Maxwell, e all’altro fisico scozzese Balfour Stewart (1828-1887), professore a Manchester. I loro nomi comparvero sulla copertina di The Unseen Universe solo con la quarta edizione, nel 1876.

Nel testo i due cercavano di conciliare le ultime scoperte della fisica del tempo, di cui erano tra i protagonisti, con la religione, in un modo che oggi appare ingenuo e che allora affascinò alcune tra le menti più brillanti della scienza britannica. Il libro era una risposta alle posizioni razionaliste del fisico irlandese John Tyndall, che l’anno precedente aveva dichiarato con forza che le idee religiose devono essere sottoposte al vaglio della scienza. I due autori affermavano che i miracoli e la fede nell’Aldilà sono compatibili con la scienza moderna, invocando un “Principio di Continuità” per il quale le idee umane, condizionate dal reale, possono svilupparsi verso l’incondizionato, l’assoluto. Così scrivevano nella prefazione:

Balfour Stewart
“Our object, in the present work, is to endeavour to show that the presumed incompatibility of Science and Religion does not exist. This, indeed, ought to be self-evident to all who believe that the Creator of the Universe is Himself the Author of Revelation. But it is strangely impressive to note how very little often suffices to alarm even the firmest of faith”.

“L’oggetto della presente opera è tentare di mostrare come la presunta incompatibilità di Scienza e Religione non esiste. Ciò, infatti, dovrebbe essere evidente a tutti coloro che pensano che il Creatore dell’Universo è egli stesso l’Autore della Rivelazione. Ma è stranamente impressionante notare come spesso pochissimo è sufficiente ad allarmare anche la fede più salda”.

Preceduto da un primo capitolo ambizioso e sproporzionato, contenente una panoramica sulle idee riguardanti l’immortalità dell’anima presso i popoli antichi, il nucleo dell’opera può essere considerato l’affermazione celata nel misterioso anagramma comparso su Nature. La materia è fatta da molecole, paragonate ad anelli a vortice immersi in fluido imperfetto, cioè l’etere. A sua volta, l’etere è fatto da particelle molto più piccole, che sono anelli a vortice di un secondo etere. Queste particelle più piccole, con l’etere nel quale fluttuano, costituiscono l’universo invisibile.

Queste idee erano in perfetto accordo con le teorie prevalenti allora. Nel 1867 Tait aveva dimostrato la mutua relazione degli anelli di fumo, scoperta che a William Thompson, Lord Kelvin, ispirò la teoria degli atomi vortice, formati da un'onda intrecciata in un nodo chiuso. Annodandosi in maniere più o meno complicate, le onde darebbero origine ai diversi tipi di atomi, con differenti proprietà. Le molecole deriverebbero dall'unione dei nodi. La teoria fu presto falsificata, ma contribuì alla nascita della teoria dei nodi, la branca della topologia che si occupa delle curve chiuse intrecciate nello spazio, con applicazioni in fisica subatomica, chimica molecolare e biologia. Quando scrisse The Unseen Universe, Tait si stava occupando della classificazione dei nodi.

A queste considerazioni fisiche, Tait e Stewart vollero aggiungere considerazioni più ardite. Ogni pensiero che viene pensato è accompagnato da certi movimenti delle molecole più grandi nel cervello, e questi movimenti sono propagati attraverso l’universo visibile, ma una parte di ciascun movimento è assorbito dalle particelle fini nell’universo invisibile. Nell’universo visibile, l’etere non è sottile e perfetto e ciò spiega il principio di entropia, secondo il quale l’energia si degrada costantemente, e la morte è il destino di ogni vita materiale. Pertanto l’immortalità è impossibile nell’universo conosciuto, ma può tuttavia esistere in un universo parallelo, accessibile teoricamente attraverso il mezzo etereo comune a entrambi:

(…) the law of gravitation assures us that any displacement which takes place in the very heart of the earth will be felt throughout the universe, and we may imagine that the same thing will hold true of those molecular motions which accompany thought. For every thought that we think is accompanied by a displacement and motion of the particles of the brain, and somehow – in all probability by means of the medium – we may imagine that these motions are propagated throughout the universe”.

“(…) la legge di gravitazione ci assicura che ogni movimento che avviene nel cuore più profondo della terra si avverte in tutto l’universo, e possiamo immaginare che la stessa cosa possa valere anche per quei movimenti molecolari che accompagnano il pensiero. Perché ogni pensiero che pensiamo è accompagnato da un movimento delle particelle del cervello, e, in qualche modo – con tutta probabilità per il tramite del mezzo – possiamo immaginare che questi movimenti si propaghino in tutto l’universo”.

L’elettromagnetismo di Maxwell forniva la chiave per spiegare come poteva avvenire il trasferimento molecolare tra l’universo visibile e quello invisibile. Per i due autori, l’elettromagnetismo era sufficientemente immateriale per comprendere sia il corpo sia la mente senza dover ricorrere eccessivamente ai concetti teologici di anima o spirito. La sopravvivenza dell’identità personale sarebbe stata assicurata dalla natura molecolare delle tracce di memoria e dal principio di conservazione dell’energia. Anche le temibili conseguenze dell’entropia sarebbero state azzerate.

Ecco perché la frase celata nell’anagramma dice che il pensiero può influenzare la materia di un altro universo e spiegare uno stato futuro. Esiste una struttura costituita dalle particelle più piccole nell’universo invisibile che possiamo assimilare all’anima, che è dotata di un suo organo di memoria “molecolare”. Durante la vita è unita al corpo. Alla morte di quest’ultimo, l’anima, con il suo organo di memoria, è semplicemente lasciata libera dall’associazione con le molecole più grandi della materia visibile. In questo modo, facendosi prendere la mano, i due autori ritenevano di aver dimostrato la possibilità fisica dell’immortalità dell’anima.

L’ultima parte del libro è ancor più curiosa: gli autori trasformano la possibilità dell’immortalità dell’anima in un assunto, che utilizzano per spiegare le principali dottrine del cristianesimo. Così, in modo assai bizzarro, è possibile trovare ad esempio una discussione sul ciclo di Carnot accanto a lunghe citazioni dagli apostoli e dai profeti.

James Clerk Maxwell
Nel suo complesso il testo fallisce, come tutti i precedenti e i successivi, nel tentativo di dare una risposta ai misteri della vita, dell’universo e del tutto. Non riesce neanche a rassicurare il teologo diffidente che la scienza non gli è nemica. Inoltre è ripetitivo, talvolta superficiale quando i due autori si avventurano in aree scientifiche al di fuori del loro campo di competenza, per tacere della parte più prettamente teologica.

Ciò nonostante riuscì per qualche tempo a rassicurare il pubblico colto sempre più impaurito dalle stupefacenti scoperte e realizzazioni della fisica, compresi quegli scienziati credenti disposti a sorvolare le molte imperfezioni, le fallacie logiche, le lacune. Tra questi lo stesso Maxwell, che era credente e, ciò nonostante, più di una volta aveva sostenuto la tesi che scienza e religione costituiscono due dimensioni separate. In una bozza della lettera di risposta che intendeva inviare al Victoria Institute, un’associazione che intendeva riconciliare la scienza e il cristianesimo, aveva scritto “Penso che si debbano considerare i risultati ai quali perviene ciascuna persona nei suoi tentativi di armonizzare la sua scienza con il suo cristianesimo come aventi significato solo per la persona stessa (…) e non debbano ricevere nessun sigillo sociale”. Maxwell tuttavia si sentì nell’obbligo morale di dedicare all’amico Tait la Paradoxical Ode, che fu l’ultima sua composizione poetica prima di morire nel novembre 1879, all’età di soli 48 anni, per un tumore addominale.

Vi fu anche chi non lesinò feroci critiche all’universo invisibile di Tait e Stewart. Il matematico e filosofo William Kingdon Clifford, in una lunga (17 pagine) ed elaborata recensione assai satirica, comparsa sul Fortnightly Review del giugno 1875, si chiedeva come mai, se erano possibili due eteri, perché non quattro o cinque o sei? E allora perché solo due universi con il loro apparato di “mitologia cristiana – corpi spirituali, pieni di energia, angeli, arcangeli, incarnazione, demoni molecolari, miracoli e giudizi finali”? Per Clifford, The Unseen Universe “ha tutto lo stampo dello scritto cristiano apologetico”. Gli autori, per quanto fisici rispettati, hanno raggiunto conclusioni che “sono talvolta sollevate da ali teologiche al di là dei confini dell’assennata deduzione”, ma “saranno ben accolte e ampiamente lette da coloro le cui amatissime convinzioni [il libro] è concepito per sostenere”. Il diffuso desiderio di immortalità non è prova di verità, infatti “la vita senza fine è una cosa inconcepibile” e la brama di non aver fine significa “semplicemente la negazione della morte”. L’alternativa teologica alla morte, tuttavia, “non è ordinata, non naturale, non salutare, ma mostruosa o soprannaturale; il cui aspetto nebuloso si rispecchia a malapena nei sogni di un sonno agitato o le follie di un malato di mente”. Tipo tosto, il Clifford.

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